lunedì 28 gennaio 2019

Il volontario

Silo, Città del Messico, 11 ottobre 1980
Commento durante una pausa di un gruppo di studio.


Sembra che molte persone  che lavorano nel nostro Movimento abbiano, per così dire, dei precedenti, nel senso  che hanno alle spalle esperienze di volontariato di vario genere (non di volontarismo, che è ben altra cosa). In effetti sembra esserci tra di  noi una grande quantità di assistenti sociali, di infermiere, di maestri, cioè  di persone che, pur  svolgendo un’attività remunerata, non paiono sentirsi veramente  ricompensate dal denaro che ricevono per il loro lavoro. Indubbiamente, se venissero pagate male, protesterebbero più di altre per essere pagate meglio; ma la spinta che sta alla base delle loro attività non si ferma in loro stesse ma va oltre, va verso gli altri; solo in un secondo momento, per via dei problemi quotidiani che tutti conosciamo, apparirà il bisogno di essere pagate. Questo, d’altra parte, è naturale, dato che non camperanno certo d’aria!  Ma che cosa vogliono dirci queste persone che, per quanto mal pagate, continuano a dedicarsi all’insegnamento? E queste altre che lavorano come assistenti sociali,  che se la passano organizzando attività da cui nessuno sa che cosa ricaveranno? Pare proprio che nel nostro Movimento ci siano tantissime persone che provengono da esperienze di questo genere... C’è quello che ha organizzato un circolo di quartiere, quell’altro che da ragazzo ha messo in piedi non so che associazione... Sono proprio persone di questo tipo  che, una volta entratevi, si dedicano in prima persona a far funzionare il nostro Movimento, ad organizzarne le attività. Per altri non è così: arrivano tra noi  in altre condizioni, cercando altre cose; presto però comprendono il significato del nostro lavoro e finiscono anch’essi per attivarsi. Dunque sono molti quelli che si mettono in cammino con noi ricavando un senso dal nostro lavoro e trovandovi una giustificazione interiore. Certo,  all’inizio  si  muovono secondo le tendenze che già avevano e facendo ricorso all’esperienza acquisita in precedenza in altri campi. Si tratta di un fatto ben osservabile, gli esempi non mancano. Non so come stiano le cose qui in Messico ma in tutte le altre parti del mondo sono tantissimi gli amici che rispondono a queste caratteristiche e nelle cui biografie troviamo precedenti di volontariato;  e sono proprio essi, in genere, a dare impulso alle varie attività del nostro Movimento.
Ma com’è possibile  che  esistano persone che agiscono disinteressatamente, senza curarsi di un rendimento immediato delle loro azioni? Di che fenomeno si tratta? Cosa c’è nella loro testa che li fa agire in un modo tanto strano? Dal punto di vista di una società consumistica, infatti, questo è un comportamento  atipico. Chiunque sia nato in una struttura sociale consumistica, chiunque vi sia stato educato, chiunque vi sia cresciuto subendone  l’influenza e la propaganda, tenderà necessariamente a vedere il mondo in termini di nutrimento personale. Cercherò di spiegarmi meglio. Io sono un consumatore, pertanto devo ingoiare tutto: sono una sorta di ventre immenso che dev’essere riempito;  nella mia testa non passa, nella maniera più assoluta, l’idea che da me qualcosa debba uscire. Anzi, mi dico il contrario: “Quello che esce da me è già tanto e mi dà  diritto ai beni che consumo: o forse non lavoro già tante ore in ufficio? Forse non dò in cambio il mio tempo che dovrebbe essere dedicato esclusivamente al consumo? Forse non pago già abbastanza con il tempo in cui sono obbligato a smettere di consumare per lavorare per il sistema?” La domanda, effettivamente, è ben posta. Chi se la pone dà ore di lavoro, ore-uomo, in cambio di una remunerazione. Non è vero? Però, dove cade  l’accento in questo discorso? Chi ragiona in questi termini non pone l’accento sull’attività che svolge nel mondo: anzi, considera tale attività un male necessario affinché il punto finale di tutto questo circuito sia lui stesso. Così sono organizzati tutti  i sistemi, qualunque sia il loro segno politico. Al loro centro  c’è sempre lo stessa cosa:  consumare.
E così la gente diventa nevrotica. Ma è logico che lo diventi. Esistono due circuiti,  uno d’entrata ed uno d’uscita: se quello d’uscita si blocca, necessariamente sorgeranno dei problemi. Ma ormai praticamente tutti sono caduti in questa trappola del ricevere;   e proprio perché l’ideologia del ricevere si è estesa dappertutto, non si riesce più a capire  come possano  esistere delle  persone che fanno  delle cose senza ricevere nulla in cambio. Dal punto di vista dell’ideologia del consumismo si tratta di un comportamento che desta profondo  sospetto. Perché mai qualcuno dovrebbe darsi da fare senza essere adeguatamente remunerato? In realtà un tale sospetto denota una pessima conoscenza dell’essere umano: infatti chi lo nutre ha compreso il significato dell’utilità del proprio fare solo in termini di denaro e non sa che esso può avere un’utilità vitale, un’utilità psicologica. A questo proposito ricordatevi che non mancano persone che hanno raggiunto un elevato livello di vita (con i problemi del lavoro, della salute, della vecchiaia o della pensione risolti) e che nonostante questo finiscono per  buttarsi dalla finestra oppure passano tutto il loro tempo ubriache o drogate, oppure ammazzano il vicino di casa.
Noi pubblicamente rivendichiamo qualcosa di disprezzato. Rivendichiamo persone come il pompiere volontario che di notte si precipita fuori dal letto perché non lontano c’è una casa in preda alle fiamme. Il pompiere volontario che rapidamente si infila i vestiti, si mette l’elmetto, esce di corsa, va a spegnere l’incendio; e quando torna a casa (alle sei del mattino: pieno di fuliggine, bruciacchiato, ferito) magari trova la sua mogliettina adorata che gli scaraventa i piatti in faccia urlando: “Quanto ti pagano per tutto questo? Arriverai tardi al lavoro, ti farai licenziare e la nostra famiglia andrà a rotoli per colpa delle tue stranezze!” E quando cammina per strada, lo segnano a dito dicendo di lui: “Sì, quello è il pompiere volontario”. Una specie di idiota a paragone  degli altri che sono così soddisfatti di se stessi che magari un giorno si buttano dalla finestra. Normalmente i pompieri volontari non si buttano dalla finestra. Con questo intendo dire che essi, a modo loro, empiricamente, hanno trovato nel mondo un punto di applicazione della loro energia. Ma non solo hanno imparato a scaricare catarticamente tale energia impegnandosi in determinate attività (cosa che fanno anche gli altri, con lo sport, i comportamenti violenti o con moltissime altre operazioni),  hanno anche imparato a fare qualcosa di  infinitamente più importante: dare un significato proprio,  interiore, al mondo. Essi, cioè, svolgono in forma empirica quelle operazioni che noi chiamiamo “trasferenziali”. Con la loro attività portano  nel mondo dei contenuti interiori che essi stessi hanno creato, invece di  rispondere agli  stimoli in modo convenzionale. C’è una grande differenza tra chi è obbligato a fare determinate cose per le quali in seguito verrà pagato e chi si esprime nel mondo esterno plasmandovi volontariamente contenuti interiori che forse non sono del tutto chiari nemmeno a lui stesso; contenuti che a volte tenta di esprimere con parole come “solidarietà”, senza intendere però quale sia il profondo significato di questa parola. Direi di più: questo povero volontario (che ogni volta che torna a casa viene ricevuto a piatti in faccia e messo in ridicolo) finirà per convincersi di essere davvero una specie di stupido e si dirà: “Lo sapevo, a me succede sempre così”. Per non parlare poi del caso in cui, invece che di un volontario, si tratti di una volontaria: caso che, in questa società, risulta tuttora molto più grave.
Di questo passo i volontari finiscono per sentirsi umiliati e così il sistema prima o poi riesce ad inghiottirli; ma questo succede perché nessuno ha spiegato loro come stiano le cose. Essi sanno di essere diversi dagli altri ma non riescono a darsi una spiegazione di quel che fanno. Infatti se li prendiamo da parte e chiediamo loro: “Allora, spiegateci un po’ che cosa ci guadagnate”, iniziano a balbettare ed a scrollare le spalle avviliti, come se avessero qualcosa di vergognoso da nascondere. Nessuno ha chiarito loro le idee, nessuno li ha forniti degli strumenti necessari per spiegare a se stessi e agli altri la ragione per la quale offrono al mondo l’enorme potenziale di cui dispongono senza aspettare alcun compenso per sé. Il che, evidentemente, è davvero straordinario.

martedì 2 gennaio 2018

Brindisi Silo per il nuovo anno

"Dovremmo celebrare un nuovo anno in ogni calendario culturale, o in un calendario mondiale che deve essere configurato nella futura Nazione Umana Universale. L'intenzione di quel calendario del futuro si sta mostrando proprio ora sotto il segno della Pace e Nonviolenza... Per ora, in tutte le culture, date e lingue, vogliamo celebrare insieme quel nuovo mondo che, nonostante le atrocità della guerra, l'ingiustizia e la disperazione già si insinua nella debole brezza dell'alba dell'umanità.
Per noi e per tutti gli esseri umani, anticipiamo l'abbraccio di Pace, Forza e Gioia"

Silo (Punta de Vacas, 31 dicembre 2009)

venerdì 28 luglio 2017

Non immaginare di essere solo nel tuo villaggio, nella tua città, sulla Terra e negli infiniti mondi


Questa "solitudine" è un'esperienza che si patisce come "abbandono" di altre intenzioni e, in definitiva, come "abbandono" del futuro. Parlare del "tuo villaggio, la tua città, la Terra e gli infiniti mondi" mette tutti ed ognuno dei luoghi piccoli e grandi, spopolati e popolati, di fronte alla solitudine ed all'annullamento di ogni possibile intenzione. La posizione opposta parte dalla propria intenzione e si estende al di fuori del tempo e dello spazio in cui trascorrono la nostra percezione e la nostra memoria. Siamo accompagnati da diverse intenzioni ed anche nell'apparente solitudine cosmica esiste "qualcosa". C'è qualcosa che mostra la sua presenza.

Tratto da "Commenti al Messaggio di Silo"